Biografia
Michela Zasio nasce a Seren del Grappa in provincia di Belluno e da tanti anni vive e lavora a Roma.
Il suo percorso di artista ha inizio in un passato relativamente recente, ma sin da bambina è sempre stata attratta dalle arti figurative, praticando la pittura già con buoni risultati.
Dopo aver terminato gli studi universitari, tutti incentrati su materie umanistiche, nel 1979 si apre concretamente alla sua grande passione per l'arte, iniziando a frequentare a Roma varie scuole private di pittura. Nel 1999 segue per tre anni il corso di pittura presso la "Scuola di arti ornamentali del Comune di Roma San Giacomo" e dal 2003, per 4 anni, frequenta l'Accademia libera del nudo presso l'Accademia delle Belle Arti di Roma.
Nel 1999 diventa allieva del maestro Pedro Cano, seguendo da quest'anno in poi diversi stage (Blanca 1999, Cartagena 2000, Murnau 2001, Bolzano 2002, Ragusa 2006, Prumiano 2008, Napoli 2008, Matera 2009) che le conferiscono sempre maggiore sicurezza nel suo mettersi in gioco come artista.
Il primo vero banco di prova è nel 2000, quando partecipa con grande successo alla mostra collettiva dal titolo I colori di Blanca. Immagini di un percorso nel Sud della Spagna, a cura di Pedro Cano, presso la Sala della Disciplina di Anguillara. Lo stesso anno vince il primo premio ex tempore della seconda edizione della manifestazione Arte e Artigianato nelle terre del Vescovado lungo la Via Claudia Altinate organizzata dal Centro Culturale Europeo Carlo Rizzarda.
Già l'anno successivo, nel 2001, tiene la sua prima mostra personale a Feltre, presso il Palazzo del Vescovado Vecchio. La mostra è stata recensita dal critico d'arte Tommaso Strinati, che ne apprezza la ricerca raffinata del colore. L'artista crea le sue opere con la tecnica dell'acquarello, ritraendo gli scorci della città di Feltre con sapiente maestria.
Il 2005 vede Michela Zasio impegnata in una nuova personale che si differenzia in tutto dalla prima: muta la tecnica pittorica, si trasforma il soggetto dell'opera. In occasione di Umanità artificiali – Palazzo delle Stelline, Sala del Collezionista, 8-24 settembre 2005, Milano - Michela Zasio ritrae elementi inanimati che rappresentano perfettamnte l'essere umano nelle sue sembianze: soggetto ritratto sono parti di manichini smembrati. L' uomo, seppur finto, è il nuovo testo della sua indagine artistica. Come scrive Carlo Zasio, la materia viene superata per arrivare a scorgere al suo interno la spiritualità dell'uomo.
L'artista fa un nuovo utilizzo del colore che non è mai lo stesso in tutte le opere: forti contrasti, continuità di toni, sovrapposizioni sono le caratteristiche di questo nuovo modo di interpretare l'essere umano. Ogni parte del corpo assume una propria valenza semantica in base ai giochi cromatici assegnati dall'artista, non per questo togliendo all'astante la possibilità di ammirare l'opera seguendo il proprio canale interpretativo.
Nel 2006 è ancora l'uomo ad essere fonte di ispirazione per Michela Zasio, che presenta in un'altra mostra personale, Toccami (Galleria de Faveri Arte- Feltre 9 dicembre 2006), ritratti di protesi umane, concentrandosi esclusivamente sul grande valore simbolico del particolare: la mano.
Questa, dipinta utilizzando olio su tela, quindi ancora una nuova tecnica espressiva, è ciò che muove l'immaginario della Zasio e del suo spettatore: chi guarda è libero di pensare, di immaginare, di capire ciò che l'arte propone all' universo di ciascuno.
Il 2009 segna per l'artista una nuovo cambiamento nella scelta del soggetto da sviscerare e da reinterpretare. Presso la Sala de Exposiciones Municipal de Blanca, Fondazione Pedro Cano, Michela Zasio presenta ancora una nuova personale, Attorno alla palma, in cui i suoi dipinti raccontano la metafora dell'albero della palma, mettendo in primo piano il fusto malfatto al tatto, ma geometricamente perfetto per la vista. Lorenzo Canova ha così definito le opere esposte:
(…) In questo modo Michela Zasio compie forse un personale cammino di palingenesi, affidando al colore e al disegno non il semplice compito di descrivere l'illimitata difformità della natura, ma di contribuire a salvarne una minima ma fondamentale particella con la forza di un gesto che dissolve e ricompone la magia della materia della vita e delle immagini per custodirne e tramandarne l'essenza, il loro cuore misterioso rivelato dalla sostanza trasmutata in una pittura che cerca nella sua lucentezza il riflesso dello splendore smarrito del mondo.(Lorenzo Canova per Attorno alla palma – Michela Zasio, Sala de Exposiciones Municipal de Blanca, Blanca, 2009)
Mostre
Alcuni testi critici su Michela Zasio
PRESENTAZIONE DELLE OPERE DI MICHELA ZASIO
di Gianmario Dal Molin
Le méđe, i barch e i tabià sono le icone minori del territorio contadino; sono i segni estremi di presenza e conquista di un territorio "altro" rispetto al villaggio: una sorta di contado ancor più rustico e subalterno del contado tradizionale cui il villaggio, per oligarchica decisione dei potentati urbani, apparteneva, quale contrapposizione civile, sociale, e financo religiosa, alla città.
Queste agresti e rudimentali cuspidi disseminate nelle campagne e nei declivi dei colli, quali depositi di fieno o riparo per i temporali, e dunque presidi preziosissimi di sussistenza e vita, costituiscono oggi un motivo – purtroppo sempre più flebile – per considerare le proprie radici e per riflettere su ormai remote modalità di vita e di sopravvivenza.
Possono servire alla bisogna i sempre più rari reperti di tali manufatti; i deteriorati racconti dei vecchi, superstiti testimoni dell'antica vita di un villaggio stravolto dalla modernità; le analisi e le ricostruzioni storico - antropologiche, effettuate anche con le moderne metodologie delle scienze sociali. Servono certamente le immagini.
Le antiche foto d'epoca – spesso d'ottima fattura – fissano solitamente i contorni di una struttura, ma difficilmente ne colgono lo spirito. Arrivano al massimo alla documentazione, alla catalogazione di un reperto, alla sua convalida esistenziale.
L'anima la possono dare essenzialmente le idealizzazioni proiettive della poesia e della letteratura.
E della pittura.
E' in questo contesto che si pone l'opera di Michela Zasio. Nel suo ormai consolidato percorso artistico iniziato con i lavori ad acquerello, il cimento maggiore di questa pittrice è stato quello di recuperare nelle cose l'intrinseca loro fascinosa malìa; quegli aspetti solitari ed arcani che stanno dietro ad esse, di scoprire insomma la magìa che da esse promana. Siano le facciate dei palazzi feltrini; lo sfondo di una montagna; un cumulo di pietre, od i mediterranei paesaggi di un palmeto, Michela Zasio cava da essi l'essenza del loro esistere. In un alternarsi non di contrasti cromatici, ma di lievi sfumature, in un sussurro di bianchi e di grigi, in un velare quello che va celato ed evidenziare quello che va esaltato, all'interno di un gioco estetico coordinato ed armonioso, ella riesce far parlare le pietre, le pareti, gli intonaci, persino le umili lamiere di un barch, persino le zavorre del fieno sottostante. In questi cinque dipinti ha saputo dare dignità estetica, innescare suggestioni inedite e originali a questi umili e sopravvissuti reperti del nostro passato. Li ha saputi inserire, senza contraddirli e tradirli, nel loro contesto naturale che non è propriamente quello bucolico di un paesaggio idilliaco, ma quello patito e tribolato di un territorio dissestato, all'ombra di monti incombenti sui pochi sottostanti prati, nella stretta di gole e di chiuse valli. Ha ridato
loro la dignità che consegue ad un lavoro che implicava non solo sudore, fatica e tenacia, ma anche intelligenza e fantasia. Ha valorosamente riscattato, all'insegna dell'arte, materie, spazi e forme altrimenti neglette e destinate all'oblio dell'amorfo e del non percepito. Ci fa vedere quello che altrimenti non avremmo voluto vedere, o avremmo visto non attraverso le categorie estetiche e morali del sublime, ma attraverso quelle amare dell'antropologia, della sociologia e della storia: storie di miserie, sudori, lacrime e umiliazioni.
E come storico sociale sono il primo a congratularmi per questo sforzo di riscatto e sublimazione di una realtà, altrimenti rimossa.
Con questi dipinti Michela Zasio non fa alcuna esaltazione retorica del passato, né alcuna esibizione di scene artefatte di vita contadina, in nome di una ridicola esaltazione del "buon tempo antico" – Dio ci scampi da quel tempo! -, ma con matura serenità estetica, scevra da ogni manierismo e leziosa ostentazione, ridona forza e significato, in una dimensione di eternità, e dunque al di là del tempo e dello spazio, ad uno degli elementi fondativi della civiltà contadina.
LA MAGIA DELLA MATERIA
di Lorenzo Canova
Nell'intreccio vitale di popoli e religioni del mediterraneo, culla e scenario stratificato di civiltà con le loro coincidenti e difformi rappresentazioni simboliche, l'albero della palma ha assunto un significato metaforico, complesso e polisemico che rappresenta eloquentemente le correnti e i transiti culturali che hanno unito l'Oriente all'Occidente e che spesso vengono dimenticati nel nome della separazione e dell'intolleranza.
La palma nei millenni, da semplice albero necessario alla sopravvivenza di intere popolazioni, è divenuta così un simbolo sacrale che unisce religioni e territori, presenza scolpita nel tempio, riparo e cibo di Maria, fioritura del giusto, ramo della festa e dell'accoglienza e allo stesso tempo prefigurazione e segno del martirio, metafora di vittoria e di gloria eterna. Non a caso, in un quadro di Giorgio de Chirico, cosmopolita italiano di Grecia, l'artista che ha riscoperto il mistero di un mediterraneo fuso a una visione germanica, le palme compaiono insieme ad Arianna per raffigurare l'enigma lucente del meriggio, di quel "sentimento africano" e profetico di una luce pietrificata nella fisità di unʼora forse eterna che unisce la Grecia alla Libia, Roma all'Egitto, Gerusalemme alla Spagna. Assume pertanto un valore particolare la scelta di Michela Zasio di dedicare proprio alla palma questa mostra che congiunge il lavoro di un'artista italiana proprio alla Spagna, in particolare alla città di Blanca e a una regione come la Murcia dove la mescolanza delle culture, delle religioni e degli stili del Mediterraneo ha una presenza particolarmente evidente e un profondo valore storico. Non bisogna poi dimenticare che l'artista italiana è legata al magistero di un grande pittore originario di Blanca come Pedro Cano (che vive parte dell'anno in Italia), cittadino del mondo ma unito visceralmente alla sua terra.
In questo contesto l'omaggio di Michela Zasio possiede anche un valore paradigmatico nella sua pervicace volontà di testimoniare ancora la bellezza del paesaggio mediterraneo, la sua irripetibile fusione di natura e di cultura (che nella palma trova uno dei suoi elementi emblematici), un patrimonio del mondo minacciato da una miope, rapace e pericolosa concezione di un presunto sviluppo economico, industriale ed edilizio che non comprende la necessità urgente e imprescindibile di proteggere anche i più piccoli ecosistemi naturali e culturali per evitare un più generale destino di rovina. In questo ampio contesto Michela Zasio ha lavorato in modo consapevole e personale scegliendo di presentare una serie di nuove opere impostate attraverso un punto di vista inconsueto che esula dalle rappresentazioni secolari della palma per dialogare con una visione analitica dei particolari che incontra riferimenti che vanno dal Rinascimento al Romanticismo fino all'Informale. L'artista difatti non rappresenta l'intero albero con i suoi rami, ma si sofferma sul suo tronco usato come un tema analizzato e composto analogamente a delle variazioni musicali, dove l'immagine e la pittura che ne fonda la consistenza fisica sono rielaborate con un metodo rigoroso di prelievo e di trasformazione del dato iconico che da un'esattezza "fotografica" si dilata quasi sfumando nello spazio del supporto. Soltanto nella maggiore delle opere esposte il tronco è rappresentato interamente fino ai rami che lo sovrastano, come per coronare l'intero tragitto della mostra dove la pittura dialoga con il creatoe con quel trascorrere degli anni che è racchiuso nel computo numerico dalla sovrapposizione dei monconi di ramo su cui si erige l'armonia dell'albero dispiegato verso il cielo come una corona solare.
Michela Zasio mostra quindi la maturazione del suo lavoro, la qualità di una pittura che si alterna e si mescola al disegno, dove la matita può calarsi nel corpo delle piante e analizzare in modo lenticolare e quasi scientifico la loro struttura con un segno attraversato dalla virtù della leggerezza, o dove il colore si dispiega sul supporto con un impianto monocromo palpitante e brulicante che denuncia il fermento vitale nascosto nella lieve presenza materica di una stesura che talvolta giunge a spingersi fino alle soglie dell'astrazione. Questa materia lucente fatta di terra e di sabbia, di grafite e di pigmento diviene allora la parafrasi visiva e tattile della materia naturale di questi alberi, il distillato di una vita che si riaccende grazie al contatto tra la tela e la mano dell'artista, alla fitta tessitura di segni e di particelle cromatiche che ricompongono il tessuto biologico di quelle piante rievocate nel territorio dell'immagine. Come un'apparizione impro-vvisa i tratti grafici e pittorici estraggono il nucleo ignoto della presenza di queste piante, la tensione segreta tra il corpo delle cose e la loro rappresentazione. La dialettica tra il pieno e il vuoto, tra le zone del supporto dipinte e quelle "risparmiate" sostiene queste opere dove le palme vengono studiate profondamente con uno sguardo che mette in primissimo piano sia la ruvida irregolarità della natura che la sua perfezione geometrica e costruttiva, il fascino della sua architettura volumetrica che compone forme di inflessibile severità plastica.
L'artista si confronta con il peso dell'immagine che interpreta il mondo, con la sua fisicità e con la densità del suo spessore che sembrano segnati dalla polvere del tempo, dalla patina scabra che il divenire imprime sulla superficie e nel cuore delle cose. Questi frammenti di palme che mostrano la loro incompleta bellezza, la magnificenza perduta della loro fioritura e della loro verdeggiante pienezza assumono in questo modo il valore di un percorso di sublimazione, di un viaggio metaforico che parla di fine e di rigenerazione. La stesura cromatica e disegnativa contiene dunque una misura poetica, iun elemento lirico consegnato allo svanire delle presenze iconiche nella luce, probabile metafora di un mondo che si consuma nel tempo e che già nella palma aveva anticamente riposto il simbolo delle sue speranze di rinascita e di eternità. In questo modo Michela Zasio compie forse un personale cammino di palingenesi, affidando al colore e al disegno non il semplice compito di descrivere l'illimitata difformità della natura, ma di contribuire a salvarne una minima ma fondamentale particella con la forza di un gesto che dissolve e ricompone la magia della materia della vita e delle immagini per custodirne e per tramandarne l'essenza, il loro cuore misterioso rivelato dalla sostanza trasmutata di una pittura che cerca nella sua lucentezza il riflesso dello splendore smarrito del mondo.
ALL'OMBRA DELLE PALME DELL'ANIMA
di Georges de Canino
HHo alcune riflessioni da aggiungere sulla pittura di Michela Zasio e le sue palme disegnate e dipinte.
L'incontro con Michela è avvenuto tra le sue palme che mi hanno circuito per bellezza e per la pittura come espressione di una vocazione non comune. A questo incontro si aggiungono le radici e la storia di Michela in una terra che ho scoperto molti anni fa, che mi lega per le amicizie profonde che si riferiscono ai luoghi di un'Italia poco conosciuta, appartata, dominata dalle alture delle Dolomiti, da un'architettura inconfondibile, sontuosa, veneziana che prelude e indirizza verso l'Oriente.
Michela nasce a Seren del Grappa in provincia di Belluno, in realtà i primi anni della sua vita scorrono a Feltre. La sua pittura, i paesaggi feltrini, i siti e gli itinerari della città si confondono negli acquarelli. Lo sguardo di Michela ha fermato con la disciplina dell'acquarello Porta Imperiale, 2001, Porta Oria, 2000, Le scalette vecchie ultima rampa, 2000, Vescovado Nuovo, La Manifattura del Piave, 2001, Loggia Palladiana del Palazzo Pretorio, 2001, Le scalette vecchie.
Alzando gli occhi verso la Basilica Santuario dei Santissimi Vittore e Corona a Feltre, inaugurata il 13 maggio 1101, si scopre un luogo di una sontuosità bizantina, a croce greca. La facciata è una vera e propria raccolta di pietre portate dopo la prima crociata dall'Oriente, si mescolano pietre di culture e di storie diverse che avvicinano Feltre a tal punto all'Oriente da pensare che siamo alle porte di un viaggio dove fioriscono le palme ai nostri orizzonti, si intravedono le terre bruciate dal sole dei secoli. Un capitello porta una scritta del Corano "L'universo è di Dio" e le colonne sono tutte di marmo greco.
Le colonne non sono forse un'oasi di palme al chiuso?
Questo luogo antichissimo, probabilmente caserma romana e osservatorio, luogo di culto passato alla cristianità, ha influito nell'immaginario di Michela Zasio, la sua pittura è diventata la mappa della sua carovana artistica ed esistenziale. Come accade in tante vicende e storie, si amplificano i percorsi e le esperienze. Michela, nell'incontro con il Maestro Pedro Cano, ha trovato una patria mediterranea conquistata nella disciplina rigorosa ed estrema dell'acquarello.
Pedro Cano vide una carta dipinta da Michela, ispirata e dedicata alla sua Feltre, è stata questa la situazione fortunata che ha inaugurato un rapporto di stima e amicizia tra maestro e allieva, basato sulla comune passione per la pittura. Una pittura che è fatta e vissuta come una missione, una vocazione morale e umanitaria.
Poi Michela ha cominciato a sviluppare un intenso lavoro sull'Umanità artificiale, raffinata, postmetafisica in un certo senso, per certi versi di una leggerezza aurea. Questa sua pittura, che guarda ai manichini scorporati in parti e frammenti, mi rimanda ai poeti surrealisti e dada; è incredibile come la pittura e l'arte, nate da oggetti inanimati, possano scatenare e sviluppare sogni, poesie inesprimibili, i nostri turbamenti e le emozioni più segrete dell'anima. Nella pittura di Michela si alterna una robustezza coriacea ed una finezza impalpabile che ci fanno ripiegare e vivere viaggi di una quotidianità silenziosa, sofferta e tormentata.
Ma l'artista se non percorre tali strade, come può raggiungere ciò che non conosce di se stesso? Come deve fare l'artista per staccarsi dai condizionamenti che massacrano la nostra natura originale e la nostra vocazione a qualcosa che non è ancora ben definito e conosciuto?
Per una donna artista è ancora più difficile, perché in realtà la donna è sempre condizionata, più dell'uomo, ad un suo ruolo, a degli schemi sociali vincolanti, a ruoli culturali limitativi e da situazioni in cui anche la donna artista è sottoposta ad una cultura di minoranza. È avvenuto per tutte le donne artiste del '900, nel secolo delle avanguardie storiche e delle rivoluzioni dell'arte. Ho avuto il dono conquistato e prezioso dell'affetto e della bellezza artistica di Edita Broglio.
È stata Edith a confidarmi i suoi racconti incredibili, le sofferenze, la sua terribile solitudine di donna che tutto fece per conquistare il suo spazio e la sua dignità; è stata una fase della storia in cui le donne dell'aristocrazia erano confinate a certi ruoli. Il suo destino di artista era stato sofferto e liberatorio. Erano gli anni che precedevano la rivoluzione del 1905 nella Russia degli Zar. Edita Walterowna Von Zur-Muehlen di origine lettone, innamorata dell'Italia, è stata fin dalla adolescenza in lotta contro la dittatura di una società al maschile, figlia di un barone baltico crudele, ipocondriaco, circondato da cani e da servitori. Poi in Italia l'incontro avventuroso con Mario Broglio, giovane pittore e giornalista, geniale fondatore della più bella rivista d'arte del '900 Valori Plastici, compagno d'arte generoso, che alternava a raptus di anfitrione, con gli amici artisti e poeti, le passioni costanti per i cambiamenti radicali di una vita sociale e privata.
A Michela Zasio le cose vanno diversamente, per sua fortuna, il tempo che lei dedica all'esercizio del mestiere dell'arte è ben fondato, difeso, tutelato da una caparbietà e da una abnegazione che si sono fortificate nel tempo.
Entrando nella sua casa romana e studio, ho visto delle opere ispirate ai manichini, che mi hanno dato l'emozione rara di una pittura sapiente e spirituale, pittura dell'anima che può ricordare Beato Angelico, quella compostezza che non è ultraterrena, è umana, fisicamente umana per la sua certezza fisica e naturale, ma che rivela un essere spirituale del mondo e dell'eros.
Lo studio di Michela è pulito, essenziale e luminoso come un ambulatorio, perché lavora con i pennelli come se fossero dei bisturi. Su un tavolo vidi una raccolta di poesie di Konstantinos Kavafis, il poeta greco vissuto in Egitto nella città di Alessandro il Grande, vicino al mare e alle palme. Kavafis è presente nella pittura, nella materia e nell'aria delle palme di Michela con una intensità certamente non letteraria e non didascalica, ma è impalpabile, una intensità mistica ed erotica che si respira quando l'arte riesce a essere se stessa attraverso l'espressione della materia e per il tramite di una sensibilità nuova, originale. Le sue palme aggiungono al nostro patrimonio di immagini e di storie dell'arte una visione che vive per se stessa e diventa immaginario degli altri, di tutti.
Questa è la verità di Michela? La sua pittura mi è vicina per i temi, per i soggetti e per la sua forza non comune. Le palme, i tronchi, le scaglie, i fusti, le foglie, i rami, le radici delle sue opere vivono all'orizzonte dei nostri sogni, ci invitano ad entrare nel sogno dell'arte. Le oasi che crea estendono lo splendore dell'albero biblico, accolgono nomadi venuti da lontano, riuniscono guerrieri bellissimi dagli occhi d'oro, visitatori di fiabe, vi accedono gli angeli, le cui ali si appoggiano ai rami dei datteri profumati.
La pittura di Michela mi ha riportato all'infanzia tunisina, Rue de Grèce. Non lontano dal palazzo in cui vivevamo ricordo c'era un grande giardino con una concentrazione di palme dal fusto altissimo. I loro pennacchi mi divertivano e agitavano le mie fantasie. A Tunisi all'inizio del viale più importante, Avenue Habib Bourguiba, davanti alla Cattedrale cattolica in stile neo-romanico, si ammiravano bellissime palme che davano sontuosità alla passeggiata. Bambino, amavo essere portato al Giardino del Belvedere, potevo ammirare animali, piante e alberi bellissimi. Le palme svettavano sugli altri alberi e sugli oleandri in fiore. Non dimentico le palme che precedevano l'ingresso della Chiesa ortodossa greca di Tunisi. Non lontano dal centro c'erano delle palme più tozze che circondavano la costruzione della Chiesa ortodossa russa, innalzata dai Russi Bianchi a conclusione della fine della guerra civile tra Bianchi e Bolscevichi. A Biserta si consegnò l'ex Marina Imperiale Russa ai Francesi. Ma i ricordi più preziosi sono riferiti alla Festa delle Capanne, la festa di Sukkot, quelle palme racchiudono le mie feste, la mia infanzia.
Per noi bambini la costruzione della Sukkà era un evento fantastico, gioioso, era il nostro paradiso e felicità. In quel periodo in gruppi di bambini giocavamo, ci divertivamo e litigavamo nella Sukkà. Pranzavamo e cenavamo alternandoci. Ogni famiglia aveva il tempo di consumare i pasti. Il ricordo più intenso era quando camminavo per le strade e alzavo gli occhi, vedevo i grandi rami di palme spuntare fuori dai balconi e dalle terrazze. Mi divertivo a contare quante capanne erano state messe su per la festa, quante erano state costruite in ogni palazzo, era un giuoco solitario che mi divertiva. La palma è l'"antenna" tra il Cielo e il popolo di Israele, si compone un mazzo con un ramo di palma, due di salice e tre di mirto, legati si loda Dio, si dice una speciale benedizione, con la mano destra il lulav (la palma) e con la mano sinistra si tiene il cedro.
L'odore forte delle foglie e dei rami invadeva le strade. Mi succede ancora oggi di cercare a Roma per le strade, nei parchi, nelle ville, le palme della mia infanzia.
Il re di Israele David ha scritto nel Salmo 92 "Il giusto fiorirà come la palma, come il cedro del Libano alto egli crescerà. I giusti trapiantati nella casa di Hashèm fioriranno negli atrii del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno rigogliosi e floridi", versetti dal 13 al 15.
Se vi capita di visitare il Tempio Maggiore di Roma, inaugurato nel 1904, potete ammirare delle belle palme nel giardino prospicente, insieme crescono le piante della Bibbia, come il cedro del Libano e la rosa. Il Tempio fu innalzato dagli ebrei romani laddove Papa Paolo IV Carafa li volle chiudere in un serraglio, condannandoli alla persecuzione, per odio e per disprezzo, anticipando di quattro secoli la volontà e il disegno dei nazisti. I due architetti, Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, che progettarono il Tempio vincendo il concorso, ebbero l'idea di decorare l'esterno e l'interno con le foglie di palma e di altri alberi biblici, per ricordare il legame storico con la terra di Israele.
Quando entro nel Tempio, ritrovo quell'albero familiare che mi ha seguito dall'infanzia. Per questa ragione in più la pittura e le palme di Michela si sono aggiunte alle palme della mia vita.
Secondo la tradizione romana, per il giorno di Rosh-Hashanà (Capodanno), come segno di augurio e di benedizione, si usa prima della cena celebrare con una serie di benedizioni il pasto della festa. Il Profeta Nehemia ed Ezra istituirono questa mensa carica di simboli e di cibi allusivi per il nuovo anno. Uno degli alimenti è il dattero, che per la sua consistenza è nutriente e dolce, simile al miele. La palma è presente sulla tavola per la prima volta nel ciclo delle feste ebraiche con il Capodanno. Successivamente è presente con la solennità di Sukkot, e poi di nuovo per il Capodanno degli alberi, Tu Bishvàt, Rosh Hashanà Lailanot.
Sotto l'occupazione romana, gli Ebrei iniziarono a piantare alberi di cedro, di palma e di rose per celebrare i momenti importanti della famiglia e quindi per allacciare un rapporto rafforzativo e concreto con la terra di Israele, gesti eterni d'amore e di rinnovamento attraverso le generazioni, di fedeltà alla patria delle madri e dei padri d'Israele.
Una mia passeggiata che risale a marzo del 2009 a Jaffo, mi ha permesso di visitare un suo antico giardino e ora parco pubblico ricco di palme secolari da cui si vede la Città Bianca, Tel Aviv. Qui ho toccato e carezzato delle cortecce e dei fusti di palme antichissime, sembravano pietrificate dalla salsedine e dal vento della storia.
Napoleone Bonaparte, dopo la Campagna di Egitto, durante il suo viaggio in Oriente, scrisse un proclama con l'idea di fondare una Nazione Ebraica in questo sito carico di eventi, di misteri, di storia, di aspettattive, di speranze e di cambiamenti.
La collina di Jaffo fu anche porto egizio nell'antichità. Si può visitare un'area archeologica con resti di un monumento dedicato a un faraone, vi sono altri monumenti contemporanei della storia dello Stato di Israele, tra cui un magnifico ponte ricco di simboli zodiacali dove chi passa, e lo attraversa, può esprimere i propri desideri carezzando il proprio segno, guardando il mare. Pare che i sogni si avverino. Con Cinzia, in quel giardino sospeso nel tempo e nella storia, abbiamo parlato della pittura e delle palme di Michela. Le luci di Tel Aviv non sono lontane, le sento più vicine che mai alle palme della mia infanzia. Amo sostare tra le palme di Michela e di Jaffo.
All'ombra dei tronchi, dei fusti, dei quadri, dei disegni di questa mostra, sento l'odore e i profumi del mare di Tel Aviv, i miei sogni sono qui accanto. Un ragazzo corre sulla spiaggia verso la Porta d'Oriente, è l'atleta dell'arte, delle scienze, della bellezza, mi è molto vicino, annuncia che l'aurora della pace sta sorgendo. Un vento si alza e arriva come le orme dell'Atleta Vittorioso tra i datteri dell'anima.
PALMERALES
di Pedro Cano
In gran parte i " Palmerales"della costa levantina della Spagna
non sono stati piantati.
Non è stata la mano dell'uomo a ordinare disordinatamente i palmeti, ma l'avventura delle carovane e le soste in particolare, creando questi immensi paradisi dai rifiuti lasciati, soprattutto ossa dei datteri, base essenziale dell'alimento quotidiano dei nomadi. L'esempio più brillante degli immensi orti-oasi è vicino ad Alicante nella località di Elche, considerata dall'Unesco patrimonio dell'umanità.
Io sono nato attorno a questa zona, nel sud-est della Spagna e l'ombra delle palme ha scandito la mia vita. Il primo ricordo legato al bellissimo e singolare albero, viene dal piccolo orto famigliare, dove la sua ombra ci proteggeva dal forte sole meridionale, e, la sua base diventava punto di appoggio e ristoro.
Michela Zasio è nata lontano dalle terre calde delle palme, ma non conosco nessuno che abbia capito come lei l'intensità che emana l'albero biblico.
La palma usata mille volte lungo la storia della pittura, non sempre è stata trattata con dignità. A volte relegata ad ornamento oleografico in grandi composizioni orientalistiche e, più recentemente come note di banale decorazione.
La Zasio ha stabilito un intenso rapporto, soprattutto con il tronco e, lo mostra in frammenti, elevandolo a volte in colonne granitiche e addirittura a parti di corpi umani.
I colori pastosi che inondano i suoi olii, fanno vivere le palme in un'atmosfera rarefatta, al bordo dell'astrazione, anche se il suo operato nasce da una acuta osservazione della realtà, ma ancora una volta, come accade nelle "Mille e una Notte" la realtà è la partenza per attraversare tutti i confini.
D a quando, alla fine degli anni '80, si è accostata alla pittura, Michela Zasio ha compiuto un percorso di ricerca e sperimentazione che l'ha portata a prendere progressivamente coscienza e padronanza dei propri mezzi espressivi. Agli esordi il tema privilegiato, declinato con la tecnica versatile, ma solo apparentemente facile, dell'acquerello è stato quello della veduta urbana e, soprattutto, dell'amata Feltre. Proprio lo scorcio di una piazza di questa città, presentato alla mostra di fine corso tenuto dall'acquerellista Giannetto Schneider, a Roma, fece da tramite con colui che sarebbe diventato il suo grande maestro, Pedro Cano. L'artista iberico, passato a visitare l'esposizione, notò il dipinto, colpito dall'essenzialità della scena, e invitò Michela Zasio ad iscriversi allo stage tenuto a Blanca nel 1999. Fu il primo di una serie di incontri e di una lunga frequentazione che portò la pittrice ad acquisire gli insegnamenti dell'illustre docente, calandoli nella sua opera: dalla visione frontale dell'oggetto, all'attento studio della luce.
Nel 2000 il primo banco di prova fu la collettiva I colori di Blanca. Immagini di un percorso nel sud della Spagna curata proprio da Pedro Cano nella sala della disciplina di Anguillara. Nello stesso anno si aggiudicò il primo premio nella seconda edizione della ex tempore Arte e Artigianato nelle terre del Vescovado lungo la Via Claudia Augusta, organizzata dal Centro Culturale Europeo Carlo Rizzarda. La prima mostra personale, tenuta nel palazzo del Vescovado Vecchio nell'estate del 2001, avente come protagonista Feltre, fu presentata da Tommaso Strinati. Il critico osservava che, nelle immagini ritratte ad acquerello delle porte urbane, delle facciate dei palazzi e di alcuni relitti di archeologia industriale come la manifattura Piave, si fondevano «il gusto per la rappresentazione delle architetture e la ricerca raffinata del colore».
La mostra successiva, Umanità artificiali, nel Palazzo delle Stelline di Milano nel settembre 2005, rappresentò una svolta. Ad essere ritratti ora sono parti di manichini dalle sembianze umane, busti, grucce e stampelle, oggetti curiosi, simulacri di un'umanità fragile e peritura. Essi rappresentano l'occasione per un ennesimo studio sui volumi e la luce, attraverso l'uso di tecniche diverse, l'olio e l'acrilico, con una gamma cromatica che spazia dai grigi a tinte forti quali il rosso, il verde e il blu, evocanti «un misto tra il mondo fauve e la cultura della pop art» (Pedro Cano). La riflessione sul corpo, e sulle sue mutilazioni, continuò con l'evento espositivo seguente, Toccami, ospitato nella Galleria De Faveri a Feltre nel dicembre 2006. L'artista vi presentò una scioccante teoria di protesi, di mani artificiali, con tutte le sottese implicazioni simboliche e culturali. Attraverso esse, scriveva Roberto Roda, viene allestita «una metafora sulla sofferenza estrema, quella dove il dolore fisico è ingigantito e persino sopraffatto dall'incomunicabilità e dall'umana indifferenza».
Un nuovo colpo d'ala nella produzione di Michela Zasio si ha nel febbraio - marzo 2009 con la personale Attorno alla palma, tenuta nella Sala de Exposiciones Municipal de Blanca, dedicata all'albero «simbolo sacrale che unisce religioni e territori» sul quale, fin dal primo stage spagnolo, aveva meditato di lavorare. Vi si trova, come osserva Lorenzo Canova, «una pittura che si alterna e si mescola al disegno, dove la matita può calarsi nel corpo delle piante e analizzare in modo lenticolare e quasi scientifico la loro struttura con un segno attraversato dalla virtù della leggerezza […] o dove il colore si dispiega sul supporto con un impianto monocromo palpitante e brulicante». Analoga attenzione, nell'intento di «recuperare nelle cose l'intrinseca loro fascinosa malia», l'artista riversa nel ritrarre i barch, tradizionali depositi di fieno, «segni estremi di presenza e conquista di un territorio "altro"» (Gianmario Dal Molin).
Ora, in una sorta di recupero delle origini, la protagonista dell'opera di Michela Zasio torna ad essere Feltre, riletta attraverso l'esperienza maturata. L'artista, che risiede abitualmente a Roma, trascorre parte dell'anno in una casa nella cittadella, osservatorio privilegiato del contesto circostante. Quella che compare nelle opere recenti è una Feltre silenziosa ed immota, colta nelle sue linee essenziali, in un istante sovra temporale: potremmo essere nel presente, ma anche cinque secoli prima. Delle architetture del centro storico, frutto dell'ibridazione rinascimentale tra le severe e slanciate forme nordiche e i più leggiadri influssi lagunari, impreziosite dalle decorazioni parietali realizzate a seguito della distruzione connessa all'eccidio del 3 luglio 1510, l'artista distilla l'essenza costituita da blocchi geometrici nettamente delineati. I volumi paiono scolpiti nella pietra e presentano un attento studio dei valori plastici e luministici. Per sua stessa ammissione il pittore prediletto della Zasio è Piero della Francesca per il quale Roberto Longhi usò la formula «sintesi prospettica di forma-colore» «per chiarire l'immota e spettacolare perfezione […] in cui l'intuizione luminosa si traduce in forma di solenne e mediata grandezza, di arcana e misurata certezza» (Stefano Bottari). La luce scorre sui piani con minore o maggiore intensità modulando le forme, infiltrandosi nelle crepe dei muri, nelle disomogeneità degli intonaci tormentati dal tempo, scrostati e dilavati dagli agenti atmosferici, creando sorprendenti marezzature.
La ricerca di come la luce colpisca i corpi, scolpisca i volumi, si insinui negli interstizi e nelle pieghe è un motivo conduttore, una costante fissa dell'opera di Michela Zasio, fin da quando ritraeva particolari di manichini sartoriali, arti artificiali o arabescate volumetrie dei tronchi di palma. La pittrice è selettiva: tutto ciò che non è percepito come rilevante viene azzerato, o quanto meno velato, dai dettagli architettonici alle finestre appena accennate. Anche il colore subisce un drastico ridimensionamento per giungere alla quasi completa monocromia, alla grisaille, basata, per lo più, su una gamma di grigi accesi, di volta in volta, dai toni ocra, verde, rosso o blu, a seconda che la ripresa avvenga in un assolato pomeriggio autunnale, in una frizzante mattina primaverile, durante un infuocato tramonto estivo o in un freddo crepuscolo invernale. La visione, secondo gli insegnamenti del maestro, è rigorosamente frontale. Si tratta di una frontalità che, forse anche per l'oggettiva difficoltà di riprendere la cittadella, talvolta si avvale di una fluttuante prospettiva a volo d'uccello, come se il cavalletto levitasse a mezz'aria, o l'osservatore fosse dotato di un potente teleobiettivo. Nessuna presenza umana compare a distrarre la registrazione delle architetture: per una sorta di ricerca d'armonia di genere, l'uomo diviene elemento estraneo da espungere. Uniche vestigia umane le pagine di giornali che vengono impresse sulla tela rievocando, consapevolmente o casualmente i collages cubisti. La solitudine che avvolge vedute e scorci conferisce agli stessi un'aura di magica sospensione riecheggiante certi paesaggi di Carlo Carrà, da San Giacomo di Varallo nella Pinacoteca civica di Alessandria a Il leccio nella Civica Galleria d'Arte Moderna di Milano. La suggestione metafisica più propriamente dechirichiana è massima nella sequenza che riprende la torre del Campanon, isolata nella sua mole slanciata, ripresa da diverse angolature e in differenti ore del giorno. La composizione per certi versi richiama inoltre le vedute urbane di Mario Sironi, caratterizzate da una «classicità austera e atemporale, dove il mondo è trasfigurato in un gioco di incastri geometrici elementari e rigidi di sapore arcaico» (Paola Tognon). Certo la modalità di forte sintesi espressiva con cui la Zasio ritrae la Cittadella, pur inserendosi in un preciso filone iconografico feltrino, non ne ripete la convenzionalità. Ella filtra la tradizione del paesaggio urbano attraverso gli influssi del Novecento, giungendo talvolta a citazioni informali.
Può risultare interessante un excursus tra chi, prima di lei, ha ritratto la città, partendo dal Cinquecento. Ludovico Toeput detto il Pozzoserrato, tra il 1582 e il 1590, in un disegno conservato ad Ottawa nella National Gallery of Canada, immortalò Feltre circondata dalla cinta muraria intervallata dai torrioni circolari, immersa nel contado, sullo sfondo delle Vette. In casa Borgasio un affresco del XVI secolo fa intravedere un gentile scorcio di porta Pusterla, mentre porta Oria e una veduta cinquecentesca della città compaiono nelle cartelle sulle pareti interne di palazzo Zucco Zasio già Persenda. La fisionomia della seconda metà del seicento è tramandata dall'incisione di Vincenzo Maria Coronelli e dai due oli di Domenico Falce, uno conservato nel Museo civico e l'altro nella collezione Massimiliano Guiotto Zugni-Tauro De Mezzan. Piatta, ma piuttosto dettagliata la città effigiata in una delle lunette seicentesche nel chiostro del Santuario dei Santi Martiri Vittore e Corona. Per il XVIII secolo vi sono le particolareggiate incisioni di Marco Sebastiano Gianpiccoli e Antonio Zambaldi con gli scorci di chiese e palazzi del centro storico. Nella seconda metà dell'Ottocento le litografie di Marco Moro fissano l'immagine di vie, piazze ed edifici di pregio. Un frammento della città compare nell'opera In limine vitae dipinta da Luigi Nono nei mesi estivi trascorsi a Feltre tra il 1903 e il 1905. Nel '900 vanno segnalate le dettagliate riprese dal vero di Attilio Corsetti, quelle di Toni Piccolotto, ancora legate all'impianto ottocentesco, i paesaggi dalle cromie espressioniste di Tancredi, Renzo Biasion, Addis Pugliese e Gianni Palminteri. Abbiamo poi le inquadrature sfumate e poetiche di Romano Ocri, gli scorci dalle prospettive rivisitate di Giovanni Pivetta. Bruno Milano coglie la cittadella e i vicoli con inconfondibili sintetiche volumetrie, Walter Resentera vi imprime la cifra della grafica novecentesca, mentre Giampiero Fachin giunge all'astrazione.
Per concludere la carrellata Egle Trincanato fissa alcuni spazi urbani, come il colle delle Capre visto da Tortesen o il vicolo delle Fornere Pazze, in alcuni acquerelli conservati nella Galleria Rizzarda. Michela Zasio entra in punta di piedi in questa galleria con il suo personale modo di ritrarre il paesaggio, la sua ricerca di una perfezione compositiva cui fa da contraltare una costante, spietata autocritica.
Quali altri oggetti coglierà il suo pennello? Verso quali altri lidi porterà il suo incessante apprendistato pittorico? Forse ha già pronta, davanti a sé e dentro di sé, la risposta perché, come scriveva Marcel Proust «Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi».
T erra d’ombra bruciata e seppia, suolo arido e riarso, alberi secchi e piante impolverate: questi sono i colori e le forme della natura che colpiscono l’occhio dell’artista al primo impatto con la Siria. Un contrasto netto con il nero, il rosa, il verde pallido delle architetture, delle pendici montuose che circondano Damasco, con l’eleganza degli uomini e gli abiti colorati delle donne e la luce dei loro occhi dietro il velo, un crescendo cromatico che culmina con la natura rigogliosa della valle dell’Oronte per poi riprendere la durezza quasi lunare nelle montagne rocciose circostanti le rovine di Serjilla, insediamento bizantino dove i greggi di pecore che pascolano hanno lo stesso colore della terra, e virare al rosso inglese del paesaggio che circonda la strada verso Aleppo. Sensazioni che culminano nella contrapposizione tra gli imponenti resti di Palmira e la moderna Tadmor sorta nelle sue adiacenze. Sono le emozioni di un viaggio lontano eppure così vicino: meno di otto anni fa queste impressioni scavarono un solco profondo nella immaginazione creativa dell’artista con immagini a lungo rimaste sepolte per poi riemergere con violenza alle prime notizie della rivolta di Homs e prendere forma nelle tele imponenti e monumentali che raffigurano antichi edifici di Palmira, sopravvissuti a millenni di rovina, di cui ora non si conoscono le sorti. Davanti allo sguardo si stagliano come vestigia di una civiltà violata dalla storia, eterna memoria di un passato che la violenza dell’uomo non potrà mai cancellare.
A ttraverso il suo lavoro Michela Zasio, artista che ha indagato nel suo percorso creativo i simboli del Mediterraneo, arriva a restituirci l’essenza di Palmira, inalterata e incorrotta dalla furia iconoclasta che in questo luogo ha raggiunto il suo apice. Lunga e triste è infatti la lista di beni, opere e siti archeologici che hanno conosciuto la distruzione intenzionale dell’uomo, esplosa sul finire del secolo scorso. La demolizione dei Buddha di Bamyian avvenuta in Afghanistan il 12 marzo 2001 segna l’inizio di un’epoca in cui la distruzione del patrimonio culturale nelle aree di crisi non è più un danno collaterale di un conflitto armato, bensì il preciso obiettivo dell’azione di chi attraverso la devastazione di monumenti e reperti persegue una duplice finalità: azzerare le identità non riconducibili alla propria e provvedere, attraverso il traffico di beni culturali, al finanziamento delle proprie attività criminali. Una strategia che ha i suoi primordi nel conflitto yugoslavo, con il rogo della biblioteca di Sarajevo, il bombardamento di Dubrovnik o la demolizione del ponte di Mostar, dove però è il primo dei due aspetti a prevalere nell’assecondare l’azione di pulizia etnica promossa dalle diverse fazioni belligeranti.
A ognuna di queste distruzioni, tuttavia, è corrisposto un moto dell’anima che attraverso il gesto creativo ha stigmatizzato lo sfregio compiuto e ha reso immortali tali luoghi. Le note del violoncellista Vedran Smailovic che risuonavano tra le rovine della Vijecnica di Sarajevo il 1 settembre 1992 hanno toccato corde profonde, le stesse che vengono smosse in chi osserva le monumentali architetture del tempio di Bel impresse nella tela. E contempla l’eternità della creazione umana.
A ognuna di queste distruzioni, tuttavia, è corrisposto un moto dell’anima che attraverso il gesto creativo ha stigmatizzato lo sfregio compiuto e ha reso immortali tali luoghi. Le note del violoncellista Vedran Smailovic che risuonavano tra le rovine della Vijecnica di Sarajevo il 1 settembre 1992 hanno toccato corde profonde, le stesse che vengono smosse in chi osserva le monumentali architetture del tempio di Bel impresse nella tela. E contempla l’eternità della creazione umana.
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Michela ZASIO
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